martedì 22 maggio 2012

Renato Sollima, Le Tavole di Ganimede

Prefazione
Nel verso immortale che conclude l’Iliade Omero chiama Ettore “domatore di cavalli”, espressione già adoperata nel poema per l’uomo che incarna più di ogni altro l’eroismo sfortunato e tragico di chi muore per la difesa degli affetti familiari e la salvezza della patria.
Talvolta l’appellativo, che di norma caratterizza l’eroe troiano, è rivolto a tutti i combattenti del suo popolo e di certo provoca suggestione, evoca l’immagine di uomini forti e coraggiosi, abituati a lottare per ottenere quello che vogliono. E’ però indubbio anche il riferimento ad una attività connessa alle abitudini di vita di genti legate intimamente alla pastorizia e agli animali domestici o da addomesticare. Gli strenui combattenti descritti nel poema in fondo non sono diversi dai contadini che nella vita reale della Grecia arcaica venivano inquadrati nella falange e, spinti dalla necessità di tornare presto alle proprie coltivazioni rimaste abbandonate, cercavano in tutti modi di giungere allo scontro risolutivo...

Dalla nota introduttiva

…Di fronte all’enigma proposto dalle misteriose incisioni l’autore ha compiuto scelte azzardate e semplificazioni per certi versi arbitrarie, però è stato l’unico che ha formulato una ipotesi di traduzione. Per sua stessa ammissione la probabilità che il risultato sia corretto è assai piccola, ma la suggestione che esso è capace di suscitare supera i limiti della scienza, così come li supera in ogni senso il recente avvenimento che ha segnato la storia dell’umanità.
La ricerca di creature partecipi come noi del miracolo e del mistero della vita, la cui presenza potesse sollevare gli esseri della Terra dalla condizione di sperduti e solitari abitatori delle immensità dell’universo, non aveva prodotto per secoli che ipotesi fantasie e suggestioni. Adesso si è in qualche modo conclusa, ci sono o ci sono stati dei “compagni di viaggio” e quella che viene presentata in questo libro potrebbe essere una loro antica storia, una voce rimasta sepolta nell’interminabile scorrere del tempo, in quel remoto angolo della via lattea che è la nostra dimora.
9 Dicembre 2641

Il primo che li vide fu anche il primo


a conoscere la loro morte; era un marinaio dell'arcipelago che tornava alla propria imbarcazione e non seppe reagire con prontezza alla sorpresa cercando subito lo scampo nella fuga. I nemici non scomposero le file per lui, né fecero uscire suoni dalle loro bocche; continuarono a muoversi rapidi e silenziosi senza interrompere le loro operazioni, ma due di loro uscirono dal folto di un drappello e dopo qualche passo di corsa scagliarono con forza i giavellotti. Lo colpirono entrambi, e il marinaio, quasi senza capire, si trovò disteso con la morte su quella terra anche per lui straniera, lontano dalle rocche bianche della sua isola. Ne era partito pochi giorni prima, l'aveva vista allontanarsi senza avvertire alcun presagio di sventura, non le aveva mandato neppure con gli occhi un saluto, come faceva al tempo dei suoi primi viaggi...

…Erano vissuti lontani: lei

nella città dei re, la bianca Ur dalle rocche alte sul mare, Elios nella orgogliosa Ibissa dalle mura possenti; ma di volta in volta si erano incontrati alle cerimonie del regno, e nel rivedersi ciascuno aveva cercato segni nuovi nel volto e negli occhi dell’altro.
Erano uguali e ogni anno un poco cambiati, sempre più splendente la luce degli occhi di lei e più rossa la fiamma dei suoi capelli.
Elios ricordava ogni incontro e l’ansia che lo assaliva nei momenti in cui stava per apparire, diritta e altera al fianco del re di Vinard.
Alle giostre di primavera, sedevano accanto e seguivano insieme con il cuore trepidante le prodezze dei combattenti...

Mentre ascoltava il racconto

e la sua ragione lottava con quelle notizie incredibili, Elios aveva sentito una piccola mano entrare nella sua e stringerla con tenera presa. Era una bimba dai capelli chiari e leggeri, che si era posta al suo fianco e sembrava pronta ad avviarsi con lui per un lieto cammino.
I campi intorno apparivano adatti ai dolci giochi dei bambini, quieti e coperti di luce come poco tempo prima, quando erano impensabili le minacce che ora occupavano tutta la mente e oscuravano la gioia del ritorno. Egli le alzò il viso e la riconobbe. Tante volte l’aveva sollevata nelle sue braccia sotto lo sguardo ridente della madre! In quel gruppo fuggitivo vi erano dunque anche fanciulli di Ibissa, che avevano assistito con occhi terrorizzati alla presa della città e forse all’uccisione dei parenti.

…Come dai primi tempi della fanciullezza,

ella trascorreva delle ore a guardare il mare dalle finestre del suo palazzo, anche se Elios non sarebbe giunto da quella parte. Sempre guardare il mare le dava tranquillità e grande forza nella mente e nel cuore.
Nei giorni aperti della primavera, quando il cielo rendeva le acque luminose e festanti, e i freschi venti del settentrione le cospargevano di innumerevoli riccioli di spuma, ne seguiva il tremolio con occhi attenti che conservavano a lungo piccole e mutevoli scintille di luce. Nelle sere dell’inverno limpide come lame di metallo splendente, ella assisteva allo scomparire lento del sole con lo sguardo smarrito sul filo lontano dell’orizzonte.




...Ella aveva guidato 1’attacco

alla città in cui aveva vissuto da prigioniera e si era trovata a combattere in luoghi che le erano familiari più della stessa patria, assalita dalle spade della memoria oltre che dalle armi degli avversari. Per tutto il tempo della battaglia avevano vagato intorno i suoi occhi irrequieti, cercando di distinguere la figura di Alco, che certo sarebbe comparso davanti agli altri dove maggiore era il pericolo. Infine lo aveva scorto e si era acquietata nell’animo. Come si attendeva egli combatteva feroce e instancabile per la sua terra, dopo esservi affannosamente sbarcato a seguito dell’inutile scontro sul mare. Appariva più fiero e selvaggio di come lo conservasse il ricordo, e benché delle sue orde non fosse rimasto che uno sparuto drappello, si muoveva all’assalto incurante del numero delle spade nemiche. A lungo ella era restata a guardarlo, incapace di decidere un gesto o lanciare con la voce un richiamo, e quell’indugio era costato altre vite al popolo di Vinard.

…Non per l’attenzione di tanti occhi

o perché volesse rendere più solenni i suoi gesti, Ruth aveva fatto più lenti i passi del cavallo. Ella era meravigliata del silenzio che ne accompagnava la marcia e accoglieva le schiere vittoriose di Ur e di Mossar. Quando aveva scorto i vinardiani occupare in gran numero gli spalti aveva immaginato la loro esultanza e il tumulto di grida che si preparava per il saluto. Invece questo non avveniva, anzi, mano a mano che si avvicinava alla porta aumentava la quiete e gli uomini sulle mura si facevano immobili. Dopo che tutti avevano occupato il loro posto era cessato ogni movimento e non si avvertiva alcun richiamo; nessuno lanciava intorno la voce o agitava le armi traendone suoni festanti.

…Mentre Itis parlava a quei remoti

abitanti dei boschi ne seguivano attentamente i discorsi, la regina stando in disparte assisteva, pensierosa, alla scena. Osservava quei vinardiani ormai così lontani e diversi dagli antichi padri, gli indomiti cavalieri delle pianure calati in quelle terre per farne la loro patria. Avevano scelto la solitudine delle foreste e il duro esercizio della caccia, preferendoli al clamore delle città e alle attività operose delle ricche zone costiere. Nei giorni della sua vita passati nella bianca Ur, protetta dal baluardo delle alte mura invincibili, con il mare dalle onde incessanti, l’animato andirivieni delle navi e degli uomini intenti alle loro occupazioni, questi sudditi sconosciuti e lontani trascorrevano il tempo nella loro valle nascosta, nel cuore di solitarie montagne. Mentre lei assisteva alle giostre di primavera fra moltitudini ansiose ed esultanti o interveniva alle fastose cerimonie del regno, essi erano intenti alle loro umili cure nel silenzio profondo dei boschi.

…Dopo pochi passi i vinardiani

poterono alfine scorgere la belva e comprendere perché avesse rinunciato ad aggredire gli intrusi. Essa si trovava sul limitare della propria tana, indecisa tra la ferocia che la spingeva all’assalto e l’impulso materno che le imponeva di non lasciare la tenera prole senza difesa. Infatti alle sua spalle si scorgevano due piccoli che sporgevano le teste dirigendo sugli assalitori lo sguardo vivace. Benché grandi come un uomo al culmine della sua vita, erano ancora molto lontani dall’età adulta e non avvezzi a lottare con avversari difficili. Ma stare al fianco della genitrice possente li faceva sentire invincibili; se anche un intero esercito avesse circondato con grande strepito il loro giaciglio si sarebbero sollevati baldanzosi e certi della vittoria. Ne rimase intenerito il cuore della regina, già ammirata del coraggio e della forza che la madre esprimeva nei gesti e nel roteare feroce degli occhi. La sua pelliccia sarebbe stata degna di adornare il giaciglio di un re, ma la vera ricompensa per chi ne avesse piegato la forza sarebbe stata nel vanto di una simile vittoria. Quella belva che signoreggiava spavalda il regno della foresta, capace di contrastare qualunque avversario, era una sfida per il coraggio dell’uomo.

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